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Il "ne bis in idem" tra CEDU, Corte di Giustizia e Cassazione



Introduzione

Le Corti sovranazionali (Corte di Giustizia europea e Corte europea dei diritti dell'uomo) hanno delineato una concezione sostanziale e processuale di "ne bis in idem" elaborando la nozione di "sufficiently close connection in substance and in time".

La CEDU e il ne bis in idem

Nella sua originaria formulazione contenuta nella sentenza "Grande Stevens contro Italia" del 2014, il principio del "ne bis in idem" aveva una valenza essenzialmente processuale, con riferimento alla compatibilità del doppio binario sanzionatorio.

In quell'occasione la Corte EDU condannò l'Italia per la violazione del divieto del doppio giudizio, previsto e tutelato dall'art. 4, protocollo 7 CEDU, per aver sottoposto il ricorrente ad un doppio procedimento - penale ed amministrativo - in dipendenza di un unico fatto illecito. Il legislatore italiano, infatti, punisce condotte del tutto sovrapponibili sia sul fronte penale - artt. 184 e 185 T.U.F., (abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato) - sia su quello amministrativo - artt. 187 e ss. T.U.F. - aprendo con la clausola "salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato", in deroga al principio di specialità ex art. 9 della legge 689 del 1981.

La Corte, accertata la natura sostanzialmente penale dei suddetti illeciti amministrativi in applicazione dei celebri "criteri Engel" enunciati nel 1976 (qualificazione giuridica della misura, natura della misura, natura e grado di severità della sanzione), statuì il divieto di iniziare o proseguire un secondo giudizio qualora il primo procedimento si fosse concluso in via definitiva. 

Due anni e mezzo più tardi, con la sentenza "A&B contro Norvegia" del 2016 (qui per leggere la sentenza), la Grand Chambre è ritornata sui suoi passi, "ammorbidendo la portata del divieto" e affermando che l'art. 4, protocollo 7 CEDU non esclude la libertà in capo agli Stati di prevedere un doppio binario sanzionatorio, a patto che ciò non comporti un eccessivo sacrificio per il singolo. 

Il doppio binario non può considerarsi in contrasto con il principio del "ne bis in idem" qualora i due giudizi condividano una "sufficiently close connection in substance and in time". 

Spetta al giudice nazionale vagliare tale rapporto sulla base di alcuni criteri: 

  1. gli illeciti debbono perseguire scopi diversi e complementari e punire aspetti differenti della medesima condotta;
  2. la doppia risposta sanzionatoria deve essere prevedibile;
  3. tra i due processi devono essere previsti meccanismi di coordinamento per evitare duplicazioni per la raccolta e la valutazione delle prove;
  4. le sanzioni inflitte, complessivamente considerate, devono essere proporzionate all'unico fatto illecito;
  5. la durata dei due processi non deve comportare la sottoposizione dell'autore a una perdurante incertezza sulla propria sorte.


Nella sentenza "Johanneson contro Islanda", la Corte EDU ha specificato che i parametri vanno cumulativamente considerati e la mancanza di uno solo di essi integra la violazione dell'art. 4, protocollo 7 CEDU: nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che non solo mancasse un coordinamento tra le due Autorità (le quali agirono indipendentemente l'una dall'altra), ma anche che la durata dei due processi (che, dall'inizio dell'indagine amministrativa al passaggio in giudicato della sentenza penale, coprirono un periodo di 9 anni), fosse manifestamente eccessiva.


Ciò che appare, dunque, è come sia stata ormai abbandonata la severità della sentenza "Grande Stevens" in favore della sufficiente connessione sostanziale e temporale tra procedimenti

Tre sentenze di notevole importanza ("Menci", "Garlsson Real Estate" e "Di Puma e Zecca") sono state emesse dalla Corte di Lussemburgo nel 2018 contro l'Italia, e riguardano i seguenti punti: 

  1. se il doppio binario sanzionatorio previsto in materia tributaria sia compatibile con il divieto di doppio giudizio; 
  2. se l'art. 50 Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE possa essere direttamente applicato; 
  3. se il passaggio in giudicato di una sentenza penale - di condanna o assolutoria - sia impeditivo dell'instaurazione o del prosieguo del procedimento amministrativo per lo stesso fatto.

Nella causa "Menci", la Corte chiarisce che ai sensi dell'art. 52 CDFUE i diritti previsti dalla stessa Carta possono subire limitazioni, nel rispetto di determinate condizioni vale a dire: 

  1. la salvaguardia del nucleo centrale del diritto (c.d. proporzionalità); 
  2. la prevedibilità e la tassatività della compressione; 
  3. la necessità della compressione del diritto allo scopo di perseguire interessi generali (c.d. test di necessità). 
Tutte e tre appaiono rispettate nel caso "Menci". Il doppio binario sanzionatorio in ambito tributario è infatti chiaramente previsto dalla normativa italiana e la maggior tutela degli interessi fiscali dell'Unione è da considerarsi un obiettivo di interesse generale.

Nella causa "Garlsson Real Estate", la Corte ha ritenuto che il caso in esame fosse orfano del requisito della proporzionalità in concreto, sia sotto il profilo della connessione tra giudizi, sia sotto quello della severità della sanzione complessivamente inflitta. Oltre all'affermazione della diretta applicabilità dell'art. 50 CDFUE negli ordinamenti interni, la Corte dichiara l'incompatibilità con l'anzidetta norma della disciplina interna che permetta il prosieguo di un processo amministrativo per il medesimo fatto già penalmente punito, quando tale pena sia sufficiente ad esaurire il disvalore dell'illecito ed a reprimerlo in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva. In particolare, i giudici si soffermano sull'art. 187 terdecies T.U.F. che, nell'ottica di garantire proprio la proporzionalità della sanzione complessiva, prevede che il giudice penale debba scomputare dalla pena da infliggere le sanzioni pecuniarie già inflitte dalla CONSOB. La Corte evidenzia, innanzitutto, che non è detto che il processo amministrativo si concluda per primo - e in questo caso la norma non prevede alcun rimedio - e, inoltre, lo scomputo interessa esclusivamente le sanzioni pecuniarie, nulla dicendo relativamente alla detenzione penalmente prevista.

Nelle cause riunite "Di Puma e Zecca", la Cassazione chiede se l'art. 14, Direttiva 2003/6, nella parte in cui vincola gli Stati a prevedere, per il contrasto agli abusi di mercato, sanzioni amministrative efficaci, osti ad una previsione normativa interna - vale a dire l'art. 654 c.p.p., che regola l'efficacia delle sentenze penali di condanna o di assoluzione nei giudizi civili o amministrativi - che escluda in concreto l'applicazione di siffatte sanzioni quando sia intervenuta peer l'idem factum una pronuncia assolutoria definitiva per mancato accertamento del fatto contestato. La Corte avalla tale impostazione, ritenendola compatibile con il diritto euro-comunitario.

La Corte di Giustizia e il ne bis in idem

La CGUE vanta un'arma in più rispetto alla Corte EDU: l'art. 52, paragrafo 1, CDFUE permette la limitazione dei diritti previsti nella medesima Carta in nome della tutela di interessi generali. Nella definizione del principio del "ne bis in idem" secondo la CGUE il criterio temporale non è incluso fra requisiti che legittimano la compressione del diritto a non essere giudicato due volte. E' sufficiente che le due sanzioni applicate siano nel complesso proporzionate al fatto commesso perchè i due procedimenti siano legittimi.

La Cassazione e il ne bis in idem

I giudici nazionali non sembrano prendere in considerazione tutti i criteri elaborati dalle Corti sovranazionali. In particolare, il criterio cronologico viene completamente trascurato. 

Nella sentenza "Franconi" del 2018, il ricorrente lamentava la continuazione del procedimento penale a suo carico per il reato di cui all'art. 185 T.U.F., nonostante la definitività di un provvedimento amministrativo per il medesimo fatto, per l'illecito ex art. 187 ter T.U.F. La Suprema Corte ha affermato che per quanto l'art. 187 terdecies T.U.F. non possa considerarsi sufficiente ad assicurare la complessiva proporzionalità al fatto della sanzione - si trattava della versione ante riforma - viene in aiuto all'interprete l'art. 133 c.p. che impone l'adeguamento della reazione punitiva alla gravità del fatto, e che viene ritenuto sufficiente per ritenere rispettato il criterio della proporzionalità.

Nella sentenza "Cason" del 2018, la Corte ha osservato che, considerati i tempi procedimentali e la minor frequenza con cui i provvedimenti amministrativi vengono impugnati, la sanzione irrogata dalla CONSOB diverrà definitiva per prima e, per quanto spetti al giudice penale di valutare se l'intero disvalore del fatto contestato sia stato coperto da tale sanzione, la Suprema Corte tende ad escludere tale evenienza. 

In ossequio al requisito della proporzionalità complessiva, in sede di determinazione della pena il giudice dovrà matematicamente scomputare la sanzione pecuniaria già inflitta e, qualora lo ritenga, scontare la pena detentiva, sino a disapplicare il minimo edittale previsto per la fattispecie integrata, ma senza poter derogare il limite edittale generale ex art. 23 c.p.: se la pena pecuniaria può essere integralmente assorbita dalla sanzione amministrativa, la stessa cosa non può accadere per la pena detentiva. 

La Cassazione considera poi come situazione eccezionale il caso in cui il giudicato travolga per per primo il processo penale, solitamente per la scelta effettuata dall'imputato di avvalersi di un rito alternativo. In questo caso la sanzione amministrativa potrà disapplicarsi in toto - a differenza di quella penale - qualora l'autorità amministrativa ritenga il disvalore del fatto illecito integralmente assorbito nella pena già inflitta. 

In un'altra recente sentenza del febbraio 2019, la Corte ha escluso la violazione del "ne bis in idem" lamentata dal ricorrente, sottolineando la complessiva proporzionalità del trattamento sanzionatorio ed esplicitamente contemplando, in tale valutazione, la pena mitigata per effetto del trattamento premiale derivante dalla scelta del rito. 

Ne deriva che la diminuzione della pena per effetto della scelta processuale di un rito alternativo permette di ritenere sussistente la proporzionalità afflittiva delle sanzioni, ritorcendosi contro lo stesso imputato, finendo anche per disincentivare la scelta dei riti alternativi nei processi penali per timore che si perda la possibilità di ottenere una pronuncia di improcedibilità per "ne bis in idem"; o, peggio, qualora il procedimento penale dovesse terminare per primo, di rischiare una sanzione amministrativa più elevata. 

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